1)  La conquista longobarda e la rifondazione arechiana di Salerno

nell’VIII secolo

Tra il 639 e il 640 i Longobardi, stanziati a Benevento, guidati da Arechi I (590-641) diedero inizio ad un’offensiva contro i Bizantini in Italia meridionale annettendo anche Salerno che entrò a far parte del ducato di Benevento. La città fu eretta poco dopo da Grimoaldo I (646-671?) in capoluogo di un vasto gastaldato, i cui confini raggiungevano a sud il fiume Sele, a nord le località di Fisciano e di Penta. Le uniche notizie che abbiamo per la prima fase della dominazione longobarda sono le attestazioni di due vescovi, Gaudioso, a cui si attribuisce per tradizione la pacifica consegna della città ai conquistatori longobardi, e Luminoso, presente nel sinodo romano indetto dal papa Martino I per condannare l’eresia monotelitica. Per la prima fase dell’occupazione longobarda di Salerno non esiste documentazione scritta ma, molto probabilmente, si insediarono in due zone: l’area intorno alla chiesa di S. Maria dei Barbuti e l’area compresa tra via Dogana Vecchia, via Giovanni da Procida, via Canali e via Fasanella. La situazione cambiò radicalmente nella seconda metà dell’ VIII secolo per merito del principe di Benevento Arechi II. Egli divenne duca nel 758 come uomo di fiducia del re dei Longobardi Desiderio. Nel 760 sposò la figlia del re Adelperga. In questo periodo Arechi II si fece promotore di notevoli opere miranti ad esaltare in forme monumentali la capitale del Ducato Benevento; la città fu ampliata verso sud, attraverso la costruzione di un nuovo circuito di mura, fu costruito un palazzo e la chiesa di Santa Sofia, con funzione di santuario del popolo longobardo. Nel 774 Carlo Magno, su pressione di papa Adriano I, scese in Italia e nello stesso anno sconfisse il re dei Longobardi Desiderio (756-774). Questo episodio decretò la fine del Regnum Langobardorum in Italia settentrionale e lo stesso Carlo assunse il titolo grazia Dei rex Francorum et Langobardorum. Dopo la sottomissione della Langobardia Maior ai Franchi e del ducato di Spoleto al Papato, l’unico stato longobardo indipendente rimase il ducato di Benevento. Dopo la disfatta di Desiderio Arechi da duca, si proclamò principe dei Longobardi come riporta Leone Ostiense: «Arechi fu il primo a voler essere chiamato principe di Benevento, mentre fino a lui i signori di Benevento avevano il titolo di duchi: si fece, pertanto, ungere dai vescovi, cinse la corona e ordinò che in calce ai documenti si annotasse “scritto nel nostro sacratissimo palazzo».Come si evince dal passo, il duca, per affermare pienamente l’autonomia e l’indipendenza del suo dominio, si proclamò principe dei Longobardi, contrapponendosi all’appropriazione di quel titolo regio da parte di Carlo Magno, assicurando ai longobardi meridionali altri tre secoli di autonomia. Salerno, che fino a quel momento non ebbe un ruolo rilevante nel ducato beneventano, fu destinata ad assumere una funzione cardine nella riorganizzazione del nuovo Principato di Benevento. La città fu ampliata con la realizzazione di una nuova cinta muraria e fu costruito il palatium principesco con annessa cappella palatina dedicata ai santi Pietro e Paolo. Arechi ripeteva a Salerno lo schema del suo intervento in Benevento: l’edificazione di palazzo e chiesa ma in un contesto ideologico diverso, dominato dalla caduta del regno e dalla assunzione della dignità principesca. Tutti i cronisti altomedievali mettono in evidenza l’opera costruttrice di Arechi sia a Benevento che a Salerno. Paolo Diacono cita la città di Salerno tra opulentissimae urbes della Campania. Erchemperto nel IX secolo dice che: “Arechi eresse una città munitissima con apposite costruzioni, elevata a guisa di piazzaforte, perché avesse costituito per l’avvenire un presidio per i principi nel caso d’incursione di un esercito su Benevento. E’ chiamata Salerno dal mare, che le è vicino e che è detto anche sale, e dal fiume Lirino: due nomi in uno”. Leone Ostiense riporta “sbigottito pel terrore dei Franchi aggiunse una  città nuova a Benevento e mirabilmente restaurò Salerno, antica fondazione tra Pesto e Nocera” e cita anche il palazzo: “costruì nobilmente due palazzi, uno a Benevento, l’altro a Salerno, e lo abbellì con magnifici versi di Paolo”. Infine abbiamo l’Anonimo autore del Chronicon Salernitanum di X secolo che scrive: “Arechi, data ogni sicurezza a Benevento e alle sue figlie, si traferì a Salerno, che è una città minutissima e illustre […]. E il principe mirabilmente l’ingrandì e ne rafforzò la difesa” e poi “elevò a grande altezza le mura della suddetta città”. Non manca la citazione al palazzo: “Arechi fortificò in ogni parte questa città e in essa costruì un palazzo di meravigliosa estensione e bellezza e ivi, nella parte settentrionale, eresse una chiesa in onore dei beati Pietro e Paolo. Notizie della fondazione del palazzo le ricaviamo anche dalla Chronica Sancti Benedicti Casinensis: “Iste primus appellatus est princeps et fecit duo palatia, unum in Benevento et alium in Salerno”. E infine anche dal Chronicon Vulturnense: “quem (Paolo) Arichis suscipiens, eum honorifice retinuit, a quo palacium infra Beneventum et alium in Salerno constructum versibus decorari fecit”. L’elemento che più di tutti rappresenta il simbolo della rifondazione arechiana di Salerno è proprio il “sacro salernitano palatio”. Il palatium principesco svolgeva le funzioni tanto di dimora “privata” del princeps e dei suoi familiari, quanto di sede degli uffici di governo costituenti la “cancelleria” principesca, con spazi riservati ad accogliere gli uffici stessi, i saloni di rappresentanza ecc.. Il palazzo fu costruito nel cuore del centro urbano, a differenza del palazzo beneventano che si trovava nella parte “somma” della città. Delogu ritiene che Arechi cercasse l’unione tra residenza e città che doveva garantire la vicinanza del principe al suo popolo. A Benevento questa si realizzò con la chiesa di Santa Sofia intesa come santuario comune mentre a Salerno si compì attraverso l’inserimento del palazzo in pieno centro urbano. Non conosciamo la data in cui iniziarono i lavori a Salerno ma possiamo individuare un arco di tempo in cui questo avvenne; Delogu sostiene che i lavori furono compiuti negli anni intorno al 774, in quanto prima di quella data la città aveva avuto un ruolo secondario, testimoniato anche dal silenzio delle fonti. La sua ipotesi è sostenuta dalle fonti successive al 774 che, univocamente, mettono in relazione questi interventi con l’aggressione al principato compiuta da Carlo Magno nel 786, l’unico momento in cui il re franco tentò di raggiungere Arechi II per sottometterlo. Un altro aspetto da considerare è il Carme per le fortificazioni e gli edifici di Salerno scritto da Paolo Diacono con l’intenzione di celebrare Arechi II e gli edifici costruiti a Salerno; questi versi furono probabilmente scritti a Salerno prima del 782 perchè in quest’anno Paolo Diacono fu trasferito come ostaggio alla corte di Carlo Magno e vi rimase fino al 787, anno della morte di Arechi II e della composizione dell’epitaffio per la tomba del principe. Nella primavera del 787 Arechi II si trasferì con la famiglia e la sua corte proprio a Salerno che doveva già essere fortificata e dotata del palazzo. Nell’aprile dello stesso anno Arechi II ricevette nel palazzo gli ambasciatori franchi e stipulò una pace onorevole impegnandosi a pagare un tributo annuo di 7000 soldi e offrendo in ostaggio il figlio più giovane Grimoaldo, assieme ad altri dodici nobili beneventani. Una testimonianza che potrebbe permetterci di datare il palazzo ad un periodo precedente al 774 è quella di Agnello Ravennate che ci racconta che Adelchi, prima di partire per Costantinopoli nel 774, soggiornò a Salerno; è lecito chiedersi se il legittimo re dei Longobardi non avesse abitato proprio nel palazzo che, quindi, poteva già esistere. Le motivazioni che spinsero Arechi a rivalutare Salerno furono molteplici. Prima dell’intervento di Arechi la città era un modesto “castrum” ma si trovava in una posizione geografica che poteva portare notevoli vantaggi all’economia del principato; Salerno si trova tra due pianure molto fertili: l’agro nocerino-vesuviano, teatro di scontri tra le milizie napoletane e i Longobardi, e la piana del Sele. In particolare quest’ultima, praticamente abbandonata nel periodo tardo antico, aveva bisogno di un centro urbano che potesse controllarla e colonizzarla. Non a caso Arechi II accolse i profughi longobardi provenienti dal nord donando loro terre proprio in queste due aree. In questi territori sono presenti chiese rurali dedicate a santi il cui culto era molto diffuso nella Langobardia Maior ed estraneo alle regioni meridionali: nell’agro giffonese, ad una decina di km da Salerno, troviamo Sant’Ambrogio, San Vittore e Santa Tecla; a Nocera un’altra chiesa di Sant’Ambrogio e un sacello dedicato ai Santi Nazario e Celso a Bracigliano nei pressi di Rota (Mercato San Severino), probabili testimonianze dell’attività colonizzatrice sviluppata in queste zone. Salerno doveva diventare il centro in cui confluivano i traffici commerciali delle due aree, garantiti dagli importanti assi viari che attraversavano la città: la via Annia, che collegava Capua a Reggio attraversando, quindi tutto il principato e un’altra via che, attraverso la valle dell’Irno, arrivava a Rota e da li si congiungeva ad un’altra via che arrivava ad Avellino e Benevento. Un’altra motivazione fu quella strategica: Salerno, oltre ad essere già fortificata prima dell’arrivo di Arechi II, possedeva delle protezioni naturali, le montagne a nord ed ovest e il mare a sud, che garantivano una certa sicurezza in caso di attacco, in un momento in cui Carlo Magno minacciava seriamente il principato beneventano. Da non sottovalutare anche la vicinanza ad Amalfi e ai suoi traffici. L’operazione che Arechi compì a Salerno è di grande importanza perché trasformò un piccolo “castrum” in una sede principesca anche se la capitale del principato rimarrà Benevento. Salerno non fu solamente una residenza del principe ma l’intenzione era quella di trasformarla in una civitas con i caratteri e la dignità di una vera e propria capitale. L’operazione di definire il perimetro murario, potenziandolo, si configura come vero e proprio atto fondativo, aspetto che viene sottolineato anche dagli storici del tempo come Paolo Diacono.Dall’epoca tardo antica il potere di fondare una città era esclusiva prerogativa dell’Imperatore, come suggerisce il caso di Costantinopoli. Costruire un palazzo e ampliare una città con un nuovo circuito murario significava conferirle lo status di capitale o, comunque, un ruolo importante nell’amministrazione dell’Impero; è il caso di Milano e Ravenna. La stessa cosa avviene in epoca altomedievale, in particolare con i Longobardi che attuano lo stesso programma nelle città elevate a capitali. La rifondazione di Salerno rientra in quei pochi casi di città di scarsa rilevanza istituzionale che, durante l’età longobarda, divennero centri di organizzazione territoriale civile o ecclesiastica. La città continuò ad essere sede principesca anche dopo la morte di Arechi II, il 26 agosto del 787, con il figlio Grimoaldo III (788-806),fino ad allora tenuto in ostaggio ad Aquisgrana. Egli ottenne da Carlo l'autorizzazione a rientrare nel principato e assumerne la corona a patto che giurasse fedeltà ai Franchi. Grimoaldo, almeno all’inizio, mantenne la promessa tanto da allearsi con i Franchi contro il principe Adelchi, figlio di Desiderio, tornato in Italia con l’appoggio bizantino per riconquistare il trono perduto. Successivamente Grimoaldo si riavvicinò ai Bizantini provocando la guerra contro i Franchi tra l’800 e l’803. Con la morte di Grimoaldo III nell’806 si spense la dinastia arechiana e, non avendo lasciato eredi, il regno passò a Grimoaldo IV (806-817) stolesaiz, che rivestiva la carica di capo delle guardie nel palazzo principesco.

 

2)  Il “palatium” salernitano: le fonti scritte e i resti materiali

Delle opere realizzate da Arechi a Salerno restano pochi lacerti di cinta muraria e parte delle strutture ed elementi decorativi pertinenti al palazzo rinvenuti durante i lavori di restauro e di scavo del complesso di San Pietro a Corte in cui è stata identificata la cappella palatina o aula di rappresentanza. Gli interventi hanno permesso di ricostruire le varie fasi di utilizzo dell’area. Il palazzo riutilizzò, per le proprie fondazioni, parte delle strutture di un complesso termale romano databile tra la fine del I e gli inizi del II sec. d.C., trasformato dal V secolo in luogo di culto da parte di una comunità cristiana dopo che un evento alluvionale, databile alla fine del IV secolo, ne provocò l’abbandono. Il restauro dell’aula superiore ha messo in luce la struttura muraria longobarda realizzata con l’alternanza di un filare di blocchetti in pietra e due filari in laterizi nella zona absidale e nella parte orientale del muro settentrionale, e una muratura caratterizzata da una tessitura poco lineare formata da laterizi e blocchetti di pietra nella parte occidentale del muro settentrionale e sul muro occidentale. Sulla facciata, ad occidente, si può rilevare una serie di archi poggianti su colonne a formare un loggiato, sul lato nord, una bifora e una serie di monofore, illuminavano l’interno; l’aula è conclusa ad oriente da un’abside quadrangolare, mentre non è possibile dire nulla circa il lato meridionale, nel quale, probabilmente, era posto l’accesso all’ambiente direttamente dal palatium. Un confronto lo possiamo trovare nella decorazione musiva sulla parete destra della navata centrale di S. Apollinare Nuovo. Il mosaico è molto interessante perché raffigura il Palatium teodoriciano in cui si può notare l’ingresso monumentale con ai lati un lungo colonnato sul quale corre un loggiato con archi a tutto sesto sorretti da colonne. Il loggiato del palazzo correva sicuramente lungo tutto il lato ovest, essendo in parte ancora visibile negli edifici adiacenti il complesso. Questo ci porta a pensare che tutto l’edificio, o una parte di esso, fosse sorretto da un colonnato su cui si trovavano gli ambienti residenziali del palazzo, il tutto contornato da un loggiato che serviva a dare luce agli ambienti interni. Il riferimento va al palatium teodoriciano rappresentato nel mosaico di S. Apollinare Nuovo che presenta le stesse caratteristiche architettoniche con un colonnato e un loggiato superiore. Il loggiato di San Pietro a Corte costituisce il riferimento immediato ai modelli dell’architettura dei palazzi imperiali tardo antichi, testimoniando la piena l’adesione culturale dei principi longobardi ai simboli tipici del potere imperiale ponendosi in continuità con il mondo romano. Per quanto riguarda la sua forma ed estensione possiamo dire che si trattava di una struttura di forma rettangolare costruita con i lati corti in direzione nord-sud a formare un complesso unico strutturato in vari ambienti e non in più edifici come i palazzi tardo antichi. Ad ornare il tutto avevamo, lungo i lati ovest ed est, due cortili o portici da cui si accedeva agli ambienti del palazzo tramite una scala. Il richiamo alla tradizione imperiale romano-bizantina è reso ancora più tangibile dal rinvenimento, durante gli scavi, di numerosi lacerti di opus sectile pavimentale e parietale che decoravano l’aula superiore che testimoniano la ricchezza e lo splendore di questo edificio. Il rivestimento pavimentale era composto da tappeti marmorei di vari motivi, realizzati con marmi di spoglio tra cui il palombino, porfido rosso, serpentino, porfido verde, giallo e rosso antico. La decorazione parietale era composta da tessere in porfido rosso, verde e in pasta vitrea con foglia d’oro. Il caso salernitano è, al momento, l’unico riscontrabile nei territori della Langobardia Minor; altri esempi possono essere individuati a San Vincenzo al Volturno, Farfa, San Salvatore a Brescia e nel Tempietto di Cividale e nei territori Franchi d’Oltralpe, in particolare nel monastero di Corvey. Ma il confronto più vicino è con gli edifici regi della Langobardia Maior, in particolare il palazzo di Corteolona costruito da Liutprando (712-744) e decorato con “emicat et vario fulget distincta metallo”, ossia risplende grazie ad un mosaico a foglia d’oro. Per quanto riguarda la provenienza degli esecutori dell’opus sectile salernitano ci sono due ipotesi differenti: Di Muro sostiene che sia stato realizzato da artigiani provenienti dall’area settentrionale del regno, mentre la Dell’Acqua ipotizza una provenienza orientale. Un altro elemento degno di nota è il rinvenimento dei frammenti del titulus. Si trattava due fregi marmorei recante dei versi con un chiaro intento celebrativo - propagandistico nei confronti del principe Arechi II. Uno si trovava all’esterno del palazzo, mentre l’altro lungo le pareti interne della Cappella Palatina. Esso fu composto da Paolo Diacono, precettore di Adelperga, figlia del re Desiderio e sposa di Arechi II. I frammenti rinvenuti si riferiscono al titulus interno alla cappella palatina e constano di undici frammenti con scrittura in capitale romana. All’interno dei solchi delle lettere sono presenti dei fori per l’alloggiamento di lettere in bronzo dorato. Un confronto analogo lo possiamo fare con il titulus composto dall’abate Giosuè (792-817) e sistemato sul fronte della basilica maggiore del monastero di S. Vincenzo al Volturno. Del testo originario si conoscono solo i sette versi iniziali grazie alla tradizione manoscritta. In questi versi Arechi II viene paragonato a re Salomone rapportando la costruzione arechiana al tempio di Gerusalemme.

 

3)  Salerno nel IX secolo: la nascita del Principato

Il IX secolo fu un periodo particolarmente importante per la città di Salerno in quanto ci fu la sua affermazione in campo politico, con la scissione da Benevento e la nascita del principato autonomo e in campo economico con l’insediamento di una colonia di Amalfitani in città per sfruttarne i traffici marittimi. I primi decenni del IX secolo furono caratterizzati da una continua lotta per la conquista del potere tra vari membri dell’aristocrazia beneventana. Grimoaldo IV stolesaiz fu assassinato da membri della corte principesca, Dauferio il Profeta, Sicone gastaldo di Acerenza e Radelchi gastaldo di Conza.“Dopo questi avvenimenti, tra i Beneventani sorse una lotta intestina per l’ambizione del principato”. Ne uscì vincitore Sicone (817-832) che iniziò una politica espansionistica nei confronti dei ducati bizantini costieri in particolare con Napoli. Lo scopo era di introdursi negli scambi commerciali tirrenici ma questa politica si dimostrò impraticabile per l’impossibilità a conquistare Napoli senza una flotta adeguata. Alla morte di Sicone gli successe il figlio Sicardo (832-839) che continuò la politica iniziata dal padre e trasferendosi stabilmente a Salerno. Nell’836 la guerra si concluse con un accordo, il cosiddetto Pactum Sicardi che oltre a confermare le disposizione del Pactum di Arechi del786 introdusse una serie di disposizioni riguardanti i rapporti commerciali tra Benevento e Napoli. L’impossibilità di poter conquistare i ducati costieri portò Sicardo a considerare la possibilità di realizzare uno sbocco tirrenico per dare impulso all’economia interna del principato. La scelta ricadde su Salerno che era l’unico centro costiero tirrenico appartenente al principato; ma come sappiamo il popolo longobardo non aveva una tradizione marinara. Così nell’838 Sicardo conquistò e saccheggiò Amalfi trafugò numerose reliquie, tra cui quelle della martire Santa Trofimena, e deportò un gruppo di Amalfitani a Salerno. Per favorire l’integrazione Sicardo attuò una politica matrimoniale tra le due popolazioni e attraverso ricche elargizioni. Gli studiosi sono concordi nel vedere in questa operazione il tentativo di appropriarsi dei traffici marittimi amalfitani che in quel periodo erano particolarmente floridi. L’aspetto interessante è che nonostante Sicardo  conquistò Amalfi non la occupò ma trasferì una parte della popolazione a Salerno. L’obiettivo era quello di sfruttare Salerno e trasformarla nella sede dei traffici amalfitani. Una motivazione di questa scelta va vista nella sua posizione geografica, sicuramente più favorevole rispetto ad Amalfi; Salerno si trovava lungo i principali assi viari della regione e questo avrebbe sicuramente favorito e facilitato il commercio. L’episodio di Amalfi non è l’unico attestato nella Langobardia Meridionale: nei primi decenni del IX secolo Capua cercò ripetutamente di conquistare Gaeta per avere uno sbocco a mare. Come sottolineato da Di Muro un episodio simile è attestato anche nel nord Europa: nell’808 il re dei Dani Goffredo attaccò e conquistò l’emporium marittimo di Ruric, nel Mar del Nord, controllato dagli Obroditi, tributari dei Franchi. Dopo aver saccheggiato l’emporio deportò mercanti di Ruric nel centro marittimo di Haitabu, da lui fondato nel golfo di Schleswig. L’obiettivo era quello di creare un emporio marittimo ad Haitabu per gestire i traffici delle merci del Baltico verso l’impero carolingio. Gli Amalfitani si insediarono stabilmente nella città solo nella seconda metà del IX secolo fondando un vero e proprio quartiere chiamato Vicus S. Trophimenis in un’area a sud della città vicino al mare. Secondo Delogu lo stanziamento in quest’area, marginale e vicina al mare, preannunziava la posizione tipica delle colonie amalfitane nelle città straniere, accanto ad una porta sull’itinerario commerciale.Proprio nel quartiere amalfitano gli scavi archeologici effettuati nella chiesa di S. Andrea de Lavina hanno messo in evidenza le varie fasi dell’edificio di culto tra cui una piccola chiesa altomedievale databile al IX secolo a quota – 5.80 m al di sotto della chiesa di XI secolo. L’edificio è caratterizzato da una pianta rettangolare monoabdidata con orientamento est-ovest a cui, poco tempo dopo, fu addossata una nuova abside con due nicchie laterali. L’abside, che risulta tagliato dalle fondazioni della chiesa superiore, presenta lacerti di affresco in cui sono visibili delle figure attribuibili a quattro angeli alati disposti due per lato, mentre al centro nella parte bassa si intravede un podio su cui si ergeva una figura ora non più leggibile. I quattro angeli calpestano i solchi di un campo dal quale emergono fiori di varia natura, fra di essi si individuano anche papaveri che nell’iconografia medievale rappresenterebbero i “giardini paradisiaci”; negli spazi tra l’abside e le nicchie laterali è presente una decorazione a scacchiera. Gli affreschi presenti sull’abside presentano notevoli analogie con i motivi decorativi di area beneventano-vulturnense tra cui il ciclo pittorico nella cripta di Epifanio a San Vincenzo al Volturno datato al secondo quarto del IX secolo. Il motivo a scacchiera può essere confrontato con l’affresco rappresentante i santi Cecelia, Urbano e Valeriano nella chiesa ipogea di Santa Maria Assunta di Pago del Vallo di Lauro, in provincia di Avellino, e con l’analogo pilastrino presente nell’episodio dei santi Zosimo e Maria Egiziaca nella chiesa di S. Maria de Gradellis a Roma, entrambi assegnati al IX secolo. La chiesa è attribuita dagli studiosi proprio agli Amalfitani che nel IX secolo si insediarono in quella zona. Nella metà del IX secolo Salerno divenne il punto di partenza privilegiato del commercio amalfitano proprio grazie alla presenza della comunità proveniente dalla città costiera. Secondo alcuni studiosi gli Amalfitani fecero di Salerno il perno della fitta rete di insediamenti commerciali distesa su tutto il meridione d’Italia e il centro prosperoso che conosciamo dalle fonti. Una conferma di questo nuovo ruolo la possiamo trovare nell’attestazione, nel IX secolo, di due mercati uno all’interno della città situato lungo la platea maior e l’altro all’esterno appena fuori le mura orientali. Il mercato urbano è attestato nell’899 quando l’abate di Montecassino riceve dal principe Guaimario I l’esenzione dal tributo dovuto al sacro palazzo per i negozi tenuti nel mercato salernitano. Una testimonianza dell’attività mercantile di Salerno la possiamo trovare nel Chronicon Salernitanum: l’anonimo racconta che il principe Guaiferio, mentre tornava al palazzo, fu fermato da un mercante agareno di nome Arrane che si trovava “nel mercato della città di Salerno” che chiese in dono al principe il copricapo che gli donò. Successivamente Arrane si recò in Africa dove incontrò un mercante amalfitano chiedendogli di avvertire Guaiferio di un imminente attacco saraceno alla città. E’ molto probabile che questo passo sia stato inventato dallo scrittore ma comunque testimonia, almeno per il X secolo, che Salerno era inserita nei traffici commerciali mediterranei testimoniato dalla presenza di mercanti agareni in città. Nella metà del IX secolo l’affermazione di Salerno si compì con l’elevazione a capitale di un principato indipendente nell’849. L’opera costruttrice di Arechi aveva trasformato la città in una vera e propria capitale soprattutto con la presenza del palazzo. Sicardo si era reso conto dell’importanza che Salerno poteva avere per il commercio marittimo. L’importanza assunta dalla città comportò lo stanziamento di famiglie e gruppi di aristocratici longobardi, già gravitanti a Benevento, che si trasferirono in città. Proprio questa aristocrazia, vedeva nella soggezione a Benevento un pericolo alla propria libertà e al suo sviluppo economico e diede inizio a quella rivalità tra Benevento e Salerno che porterà, nella metà del IX secolo, alla lacerazione della Langobardia Minor. Le fonti altomedievali mettono in evidenza che fu proprio una parte dell’aristocrazia beneventana a favorire la scissione di Salerno da Benevento in seguito ad una serie di lotte per la conquista del trono dopo la morte di Sicardo. Nell’839 Sicardo (832-839) morì assassinato in seguito ad una congiura capeggiata dal tesoriere Radelchi, in cui furono coinvolti, esponenti della nobiltà beneventana tra cui Dauferio il Balbo, suocero di Sicardo, e i suoi figli Maione e Guaiferio. Le fonti testimoniano che Sicardo scelse come sua sede proprio Salerno e fu ucciso quando si recò a Benevento. Radelchi si proclamò principe ed esiliò membri dell’aristocrazia beneventana che lo avevano aiutato nella congiura tra cui Dauferio “il Balbo”. Lo stesso Dauferio, dopo un breve soggiorno a Nocera, venne a Salerno che diventò la sede di una cospirazione volta a deporre Radelchi. Le fonti ci raccontano che Dauferio istigò i Salernitani contro Benevento e propose ai nobili locali la liberazione di Siconolfo, fratello di Sicardo imprigionato a Taranto proprio da Sicardo, per proclamarlo principe. I Salernitani con l’aiuto degli Amalfitani partirono con una nave alla volta di Taranto dove liberarono Siconolfo e lo condussero a Salerno dove fu proclamato principe. L’elevazione di Siconolfo a principe di Salerno portò ad una guerra civile che si protrasse per un decennio. Siconolfo assunse in principio il titolo di principe riferito all’intero principato che tentò di conquistare totalmente ma senza esito. Questo conflitto durò circa dieci anni in cui si spianò la strada alle orde saracene impiegate da entrambi i contendenti come milizie mercenarie e ad una nuova fase di ingerenza franca nel Mezzogiorno. Fu lo stesso Siconolfo a facilitarla sposando la sorella di Guido duca di Spoleto, potente personaggio legato al regno carolingio d’Italia essendo delegato al controllo della situazione nell’Italia centrale e meridionale. Proprio Guido nell’844 presentò Siconolfo al principe franco Ludovico (839-875) che gli promise appoggio; nell’849 lo stesso scese nel Mezzogiorno per porre fine a questo conflitto imponendo la divisione del principato di Benevento in due parti: una sotto la sovranità di Radelchi e l’altro di Siconolfo. La divisio ducatus fu sancita con un pactum tra i due contendenti convalidato dal principe Ludovico. Il trattato sancì il riconoscimento della piena indipendenza dei due Principati di Salerno e Benevento. Con l’assunzione della nuova dignità di capitale Salerno si trasformò nella sede, unica e permanente, di un potere sovrano il cui fulcro era il palazzo e con alle dipendenze un vasto territorio di cui Salerno era il centro di gravità. Questo nuovo ruolo portò ad una nuova stagione di costruzioni di prestigio in città sulla scia delle realizzazioni arechiane. Nell’865 il principe Guaiferio fondò tra l’861 e l’865 nel Plaium Montis la sua residenza e la chiesa di San Massimo a cui annesse un monastero e dotandolo di cospicui possessi fondiari. La chiesa oggi è ancora esistente nell’attuale palazzo San Massimo ma inglobata all’interno della palestra del liceo lì istituito. Sull’architrave il principe fece scolpire un’iscrizione che celebrava la sua costruzione: “GUAIFERIUS PRINCEPS INSTINCTU FLAMINIS ALMI  / [AR]DUA HAEC STRUXIT MOENIA PULCHRA DOMUS” . Essa presenta ancora in parte l’impianto altomedievale con tre navate scandite da colonne con capitelli corinzi. L’edificio manca della zona presbiteriale, forse in origine scandita da un’abside, ma conserva lacerti della decorazione pavimentale in opus sectile realizzato con marmi della Roma antica: proconnesio, porfido rosso, giallo antico, pavonazzetti. Si può ritenere che l'acquisizione dei marmi romani effettuata insieme con quella delle colonne e dei capitelli di spoglio sia quindi contestuale al primo impianto della chiesa che doveva avere un fasto e una ricchezza straordinarie, testimoniati anche dalle notizie documentarie che parlano di arredi sacri in oro e argento. Secondo Delogu la scelta del sito non fu casuale; la chiesa aveva il suo ingresso lungo la platea che dalla porta dei Respizzi conduceva al centro della città e si proponeva come fattore di urbanizzazione dell’area grazie ai numerosi possedimenti nella zona. La chiesa divenne ben presto uno dei centri di vita religiosa più importanti di tutto il principato e uno dei più cospicui patrimoni fondiari dell’epoca grazie anche alle donazioni di cittadini e devoti. Per il Ruggero, San Massimo fu il simbolo della vittoria politica della famiglia del principe Guaiferio sui suoi avversari. Nello stesso tempo, dal punto di vista religioso e cultuale, si propose come santuario urbano antagonista del sacrario nazionale di S. Sofia a Benevento attraverso la raccolta di reliquie, in particolare quelle di San Bartolomeo a cui fu dedicato un altare nella chiesa. La qualità di sede della sovranità si rifletté anche sulle istituzioni ecclesiastiche legate alla città, e innanzi tutto sul vescovato. La cattedrale longobarda di S. Maria divenne lo spazio liturgico pubblico della sovranità dove si svolgevano le funzioni religiose a cui assisteva il principe. Questa situazione portò, alla fine del X secolo, all’erezione di Salerno a sede arcivescovile. Negli anni intorno all’850 il vescovo di Salerno Bernardo (843-855) fece edificare il nuovo episcopio e la chiesa dedicata al Salvatore. Essa fu decorata con la tecnica dell’opus sectile come riporta il passo: “fece costruire una chiesa di splendida bellezza e ordinò che il pavimento fosse costituito da piccoli cocci e tasselli tinti da vario colore“. Sempre all’interno della città Bernardo fece costruire una chiesa dedicata ai santi Cirino e Quingesio in seguito alla loro traslazione in città da Faiano. Infine terminò anche la costruzione della chiesa di San Giovanni Battista situata nel pressi dell’episcopio stesso: Bernardo “fece un campanile di grande bellezza e completò la chiesa di San Giovanni Battista […] la decorò con un ciborio e con belle immagini e dappertutto raccolse i corpi di molti Santi”. Di Muro ha messo in evidenza i rapporti stretti tra queste costruzioni e la cosiddetta “ideologia arechiana”, intesa come rappresentazione del potere attraverso le realizzazioni materiali, nell’uso dell’opus sectile, forse ispirato alla decorazione del palazzo e nelle iscrizioni che esaltano il fondatore dell’edificio, come nell’epigrafe di San Massimo, chiaro riferimento ideologico al titulus arechiano. Particolarmente significativa è l’opera edificatoria del vescovo Bernardo che, “inserendosi nel solco della tradizione inaugurata dal principe Arechi, con la costruzione di edifici di prestigio e della raccolta delle reliquie, indispensabili quest’ultime alla salvezza terrena e celeste della patria che trovava nella Salerno di quegli anni un nuovo polo di riferimento contrapposto a Benevento, inizia quel processo di rinsaldamento e affinamento degli attributi sacrali e qualificanti della città, indispensabili ad elevarla al ruolo di capitale”.

 

4)   Opulenta Salernum

Il prestigio e lo sviluppo economico che Salerno ebbe nel IX secolo trova il suo completamento tra il X e l’XI secolo quando la città assunse il titolo di Opulenta Salernum. Da X secolo infatti la documentazione evidenzia una città in crescita in cui diminuiscono le terre coltivate e “vacue”, molto presenti nei secoli successivi, per far posto ad una più fitta urbanizzazione sintomo di un aumento demografico. Un altro elemento importante è la forte presenza di un aristocrazia urbana gravitante intorno alla corte legati al possesso di patrimoni fondiari. Il simbolo della presenza di un ceto aristocratico in città furono le chiese private e i monasteri segni del prestigio e della potenza dei diversi gruppi familiari divenendo anche centri di gestione patrimoniale. Tra X e XI secolo la città si riempie di chiese nobiliari che secondo il Delogu non ebbero solo un ruolo esclusivamente privato ma erano aperte alla popolazione integrando il sistema delle chiese vescovili e monastiche; inoltre erano situate lungo i principali assi viari e presso le porte. Un esempio in tal senso è la fondazione principesca di S. Maria de Domno destinata, come San Massimo a divenire il nuovo fulcro del tessuto urbano. La chiesa, fondata negli anni tra il 986 e il 990 dalla principessa Sichelgaita, moglie del principe Giovanni (983-999) della dinastia cosiddetta “spoletina”, fu costruita nell’area tra il muro e il muricino lungo la “via carraia” che era il principale asse viario dei quartieri a mare della città. Delogu sottolinea come la scelta del sito, come per San Massimo, non fu casuale; l’edificio fu costruito in un’area che stava per diventare il nuovo centro economico e commerciale della città grazie alla presenza degli amalfitani nel Vicus S. Trofimenae e all’insediamento proprio in quest’area nel X secolo di una comunità ebrea. La crescita progressiva dei quartieri costieri e l’importanza assunta nella gerarchia dei percorsi dalla via Carraria, che da est a ovest attraversava tutto l’abitato, dalla foce del Fusandola a quella dell’Irno, spiega la scelta operata per la fondazione di Santa Maria de Domno, denunciando chiaramente l’ormai compiuto trasferimento del punto gravitazionale della città lungo la linea di costa. Nonostante la nuova dinastia regnante fosse riuscita ad entrare tra i proprietari della chiesa di San Massimo, decise di non rinunciare ad una propria chiesa familiare. La motivazione di questa scelta va vista nella fase di decadenza, sia economica che di prestigio, che attraversava la chiesa di San Massimo e nella sua posizione troppo defilata rispetto al nuovo polo economico che si andava formando nei quartieri a sud della città. La vocazione marittima si consolida con l’insediamento in città di una colonia di Ebrei dedita ad attività commerciali e artigianali. La loro presenza è attestata nell’area tra il muro e il muricino, nella zona chiamata nelle fonti Giudaica. La posizione non fu certamente casuale; era vicina al mare e confinante con la colonia degli Amalfitani. Entrambe le colonie erano destinate a costituire le punte avanzate dell’economia mercantile salernitana per i commerci a lunga distanza. Ma un commercio marittimo necessitava di un porto; sulla nascita del porto i pareri tra gli studiosi sono discordi. Le prime attestazioni certe le troviamo nell’XI secolo ma nel X abbiamo delle notizie indirette sull’esistenza di un porto o comunque di un attracco. L’Anonimo salernitano riporta che il principe Gisulfo I intorno alla metà del X secolo “con grande seguito partì via mare” per Terracina in seguito ad una richiesta di aiuto da parte del pontefice. In un documento del maggio 980 viene citato “iohannes dedit et mediator mihi posuit petrus atrianense filius ursi, qui vocabat da lu portum”. Quindi un gruppo di Amalfitani che dovevano vivere proprio nei pressi del porto. Un’altra testimonianza la troviamo della vita di S. Alderarldo, arcidiacono della Chiesa di Troyes, il quale si imbarcò da Salerno per raggiungere la Terrasanta. Questo legame tra il porto di Salerno e la Terrasanta è evidente nell’episodio dello sbarco a Salerno, alle soglie dell’anno Mille, di un gruppo di cavalieri Normanni di ritorno dalla Terrasanta diretti alle tombe degli Apostoli. Nell’XI secolo la città raggiunse il massimo dello splendore e della ricchezza. L’artefice fu sicuramente il principe di Salerno Guaimario IV (1027-1052); egli salito al potere attuò una politica di espansione in tutto il Mezzogiorno con l’aiuto di contingenti Normanni. Nel 1032 occupò Sorrento annettendone il ducato, nel 1037 il Principato di Capua e il Ducato di Gaeta e nel 1039 occupò il Ducato di Amalfi. Guaimario governava anche sul Ducato di Puglia e di Calabria. L’unico Ducato escluso fu quello di Napoli. Nella prima metà dell’XI secolo Salerno era la capitale di un vastissimo territorio che comprendeva quasi tutti il Mezzogiorno. Questo ruolo portò la città ad uno splendore e ricchezza mai raggiunti nei secoli precedenti. Con la conquista dei ducati costieri di Amalfi, Sorrento e Gaeta, Salerno affermò definitivamente la sua vocazione marinara. In questo periodo Salerno possiede un porto ed una flotta. I mercanti salernitani sono citati nelle Honoratie civitatis Papie all’inizio dell’XI secolo insieme ad Amalfitani e Gaetani a condurre affari “con grandi traffici” a Roma. Amato di Montecassino riporta la notizia di una nave pisana attraccata nel porto dopo essere scampata ad una tempesta. Con Gisulfo II (1052-1077), ultimo principe longobardo, lo splendore raggiunto dalla città viene riportato anche sulle monete. Sul diritto è raffigurato il busto del principe con la legenda “gisulfus princeps”, con lo scettro nella destra e nella sinistra una sorta di fiore a tre punte. Sul rovescio sono rappresentate delle architetture merlate con l’iscrizione “opulenta salernu” la sede del principe. Si tratta della rappresentazione della città di Salerno con la sua cinta muraria, in cui si apre una porta sovrastata da una torre e il castello sulla cima del colle. In basso sono presenti piccoli tratti ricurvi che potrebbero rappresentare il mare, elemento che ci permetterebbe di identificare la porta con la “porta maris”. Un confronto lo si può trovare nelle bolle degli imperatori tedeschi, che da Corrado II presentano sul rovescio la cinta muraria con una porta al centro ed un imponente edificio con torre e campanili all’interno, designata dalla leggenda come raffigurazione dell’avrea roma. Secondo Delogu l’intenzione di Gisulfo II fu quella di magnificare la sede geografica ed ideologica del potere politico. Con Gisulfo II iniziò il declino del principato di Salerno; l’ostilità con i Normanni e gli Amalfitani indebolirono fortemente il potere di Gisulfo. Nel 1077 il normanno Roberto il Guiscardo, con l’aiuto degli Amalfitani, assediò la città di Salerno per otto mesi prima di capitolare. Gisulfo si rifugiò nella Turris Maior dove resistette circa un anno prima di arrendersi, ponendo definitivamente fine al dominio longobardo in Italia meridionale. Così veniva meno l’eredità di Arechi: Salerno sarebbe rimasta ancora per lungo tempo una delle più ricche ed illustri città dell’Italia meridionale, ma aveva perso per sempre la qualità di centro politico voluta per essa dal fondatore. Il quadro che viene fuori da questo breve approfondimento sulla Salerno altomedievale è di una città che dalla rifondazione arechiana nella seconda metà dell’VIII secolo fu in continua ascesa fino all’opulenza raggiunta nell’XI secolo. Questo periodo può essere diviso in almeno tre periodo o fasi che hanno caratterizzato la fase altomedievale della città. La prima fase risale alla seconda metà dell’VIII secolo quando Arechi rifonda la città con la costruzione del palazzo e della cinta muraria donandole la dignità da una vera e propria capitale, e inserendola nel suo progetto di organizzazione economica del neonato principato di Benevento trasformandola in centro di gestione dei beni provenienti dall’agro nocerino-sarnese a nord e dall’agro picentino a sud. La seconda fase comprende il IX secolo quando Salerno si separò da Benevento divenendo capitale di un principato autonomo nell’849 e affacciandosi nei traffici marittimi tirrenici con l’insediamento della colonia amalfitana in città. La terza fase comprende il X e l’XI secolo, periodo in cui Salerno si afferma come potenza marinara grazie alla presenza di un porto e alla conquista dei ducati costieri rivali e anche come potenza politica riunendo sotto di sé quasi tutto il Mezzogiorno d’Italia fino all’avvento dei Normanni.